Giannicola Ceccarossi
Motivazione: Per il prestigioso e lungo sodalizio con la poesia e per l’esattezza della parola.
Nota critica di Massimiliano Pecora
Vi è un grande senso di carità che resta sotteso nel donare agli altri i versi della propria vita. Ma cosa è la carità se non una forma di grazia – ad intenderla alla maniera di Pindaro – nella quale ci riconosciamo e che ammiriamo? Coloro che si dedicano alla fabbrile arte del verso sono sempre occupati da una ricerca, una riflessione sul mondo e sulla sua manifestazione, sull’analisi del complesso rapporto tra le sensibilità metafisiche e i procedimenti fisici dell’uomo; sulle manifestazioni polimorfe del nostro modo di approssimarci alla vita e alle percezioni visibili delle cose date e di quelle ancora nascoste. Volendo tralasciare la complessa e penetrante interpretazione di Jacques Derrida, ricordiamo che nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche Hegel distingueva tra Gedächtnis e Erinnerung (Memoria e Ricordo interiorizzante).
Mentre alla seconda il padre dell’idealismo concedeva la facoltà di richiamare la riproduzione di un’immagine sensibile esperita nel passato, alla prima spetta la qualifica di memoria che «ritiene il nome», ovvero di memoria che rende possibile l’uso del linguaggio. Molti poeti hanno tentato di rappresentare questa oscillazione tra la sfera della presentificazione del ricordo e la sua decodificazione in un linguaggio che lo fissa, lo rende eterno e, per così dire, lo trasforma nel ricordo del futuro. In altri termini, esiste una poesia che vuole essere una sorta di introibo enunciativo in cui si salda l’opposizione tra animus e anima, costituendosi come un momento di riposo, di stasi in cui i sensi servono solo da via verso una meta edenica. Viene alla mente una delle prime poesie del padre servita David Maria Turoldo. Leggiamo da Io non ho mani (1948): «mia natura è di essere presente: amare | la realtà che sento: toccare, divenire queste morenti cose|salvarle nel mio gesto|di pietà».
Le poesie che nascono con questo afflato sono le più intime, ma anche le più consolanti, le più lepide, quelle nelle quali il tempo non è più una prigione, ma solo una parola da riempire con la parabola della propria esistenza. La poesia è sempre nelle cose, nell’istanza reificante che vincola i sensi per poi guidarli alla ragionevolezza della partecipata comunicazione verbale. In questo assioma, per dirla con James Hillmann, giace il codice dell’anima del poeta o, per non far torto all’autore che oggi premiamo, la sua melodia nascosta.
Giannicola Ceccarossi, classe 1937, conosce la forza della musica colta per diritto di nascita e, accanto a quest’arte, il lungo e fabbrile artigianato della poesia, costellando la sua produzione di raccolte dal 1970 fino ai giorni nostri. Della sua vastissima produzione ricordiamo Aspetterò l’arrivo delle rondini (2011), Ed è ancora così lontano il cielo (2012), Il tempo è solo una parola (2022), passando per le bellissime raccolte di Canti e silenzio (2017) e Voci (2018), e, guarda caso, Anima mia (2020). Nell’inesausta e inesauribile produzione di Giannicola Ceccarossi il lessema «delicato», in tutte le sue variazioni – non da ultima quella riferita all’allusiva lepidezza del verso –, epitoma un lungo percorso filosofico-poetico che, tra i suoi illustri predecessori, si avvicina a una delle più belle e trascurate raccolte della letteratura italiana del secondo Novecento: La luce ricorda di Giorgio Vigolo (1967). E di variazioni sinestesiche, come già nelle poesie di Vigolo, è ricco il dettato di Ceccarossi, teso, nella più che quarantennale produzione, a indicarci la via di un canto dimesso, ma liricamente cogente di fronte alla confusa ansia dei cittadini e degli uomini del nuovo millennio.
In ragione di ciò la XXXII edizione del Premio letterario internazionale ‘Città di Pomezia’ si fregia di un grande onore e di un enorme privilegio: il conferimento del Premio speciale della giuria al prestigioso e lungo sodalizio con la poesia di Giannicola Ceccarossi.